Il nostro saluto a Romano Pampaloni

Ieri sera 18 dicembre  alle 22,50 è morto Romano Pampaloni.

eventi

man-working-ceramics

Lo ricordiamo come maestro di ceramica a Villa Guicciardini con i ragazzi di don Carlo Zaccaro, con i detenuti e con le tante persone che hanno avuto la grazia di conoscere la sua professionalità e la sua umanità.

Le nostre condoglianze alla famiglia e la nostra preghiera.

Di seguito un articolo su La Nazione di Maurizio Naldini che ne traccia un profilo.

la_nazione

Ettore Bernabei

Ieri 13 agosto è morto all’Argentario, all’età di 95 anni, Ettore Bernabei.

bernabei

Ricordiamo la sua amicizia, la sua generosità e i tanti incontri con lui a Villa Guicciardini con gli universitari di don Carlo e con tanti amici fiorentini.

L’associazione Amici di don Carlo Zaccaro grata per la testimonianza professionale e cristiana del socio fondatore Ettore Bernabei lo ricorda nella preghiera.

 

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/2016/08/14/e-morto-ettore-bernabei-storico-direttore-rai_04bb4c03-e86f-445b-8fd4-b81719d9f1e8.html

15 maggio a Sant’Ellero

Carissimi, ieri era il 15 maggio, un giorno particolare per chi, come noi, ha vissuto a Firenze negli anni d’oro di Don Carlo. Sono passati sei anni da quando ci ha lasciato per raggiungere sicuramente un mondo migliore, ma credo che molti di noi ne continuino a sentirne la mancanza.

Come cerco d fare ogni anno, anche per il legame giovanile che mi lega a Sant’Ellero, sono andato alla messa delle 11.00 sul colle dove Don Carlo mi sposò nel lontano 1993.

Dopo le risposte (scarse) alla mia precedente mail, e aver appurato la volontà di ricordare Don Carlo alla messa delle 16.00 in occasione della Santa Cresima e il 16 e il 22 a Firenze, non contavo di trovare a Messa persone affettivamente legate al nostro Don Carlo e, come sempre succede, è proprio in questi momenti che avvengono le cose più belle, quelle in grado di farti pensare che ancora c’è qualcuno che ti vuole stupire.

La chiesa piena, ma non affollata, a dir messa Don Massimo, Don Vincenzo e Don Corso. Tra i fedeli l’inossidabile amico di sempre “Luciano”. Dopo la lettura del Vangelo l’omelia viene magicamente lasciata a Don Corso, una magnifica omelia dedicata alla recente scomparsa di Don Carlo Fabretti, ma principalmente incentrata sul nostro “DON” Fiorentino “che aveva scelto la Romagna per l’ultima parte della sua vita” quasi a voler ringraziare quella “fragile figura di cappellano militare” che l’aveva rapito alla fama e al prestigio di una cattedra universitaria per affidarlo alla “Divina Provvidenza”. Un’omelia fatta con il cuore e la ragione che, nella semplice verità dell’esistenza terrena di un uomo illuminato, ha saputo tracciare quei lineamenti di un altro uomo, altrettanto illuminato, che ha dedicato tutto se stesso alla regola del “positivo fare” di un sacerdote galeatese assunto a “Padre” da tanti orfani  fiorentini.

Una omelia, tanto semplice quanto profonda che, nel giorno della Pentecoste, ha saputo tracciare con “voce sicura” quelli che erano e sono ancora gli insegnamenti che Don Carlo ha voluto lasciarci. La sua profonda necessità di conoscere il bisogno degli ultimi e di agire di conseguenza per rendere meno difficile la loro esistenza. La forza illuminata di chi sa cosa significhi sete di sapere, di quanto sia importante la sana cultura sociale per rendere questo mondo migliore; di quanto credesse in noi universitari come fuoco di una nuova rinascita della nostra società. Mai stanco, mai piegato nella rassegnazione di raggiungere un obiettivo, forse folle, ma necessario. Quella gioia del suo cuore che si esprimeva attraverso la voglia di vederti felice che, credo, facesse sì che mai ti dicesse cosa fare, aspettando solo che tu, nella tua autonomia, nella tua serenità, arrivassi a capire la necessità di farlo. “Sappi Gabriele che solo quando sarai in pace con te stesso, riuscirai a fare qualche cosa di utile per gli altri”. Una frase che ho dentro e che mai si è sopita e mai si cancellerà dal mio cuore. Che mi fa sperare “contro ogni speranza” che forse un giorno si raggiungerà quell’ideale mondo governato della nostra natura migliore.

E’ un insieme di magici simboli, di belle immagini che si ritrovano e si rincorrono; la Pentecoste, la Provvidenza, il Fare, la Ragione della Cultura, i Ponti di pace e, soprattutto, la Speranza. Parole che oggi paiono nascoste da una tetra luce di arroganza medievale ma che ci fanno ancora sperare che quanto Don Carlo ci ha insegnato, ci ha trasmesso con la sua usuale determinata delicatezza, possano reagire e riportare prepotentemente alla ribalta quella luce che ci manca, che solo persone grandi sanno trasmettere e che speriamo, prima o dopo, tornino a farci credere che un mondo migliore è possibile.

Grazie Don Corso, grazie Luciano e grazie ancora una volta “Don Carlo”, al prossimo 15 maggio a Sant’Ellero, in religioso silenzio, come quest’anno.

Gabriele Locatelli

16 maggio Messa per don Carlo a San Michelino

Sono passati 6 anni dalla morte di don Carlo Zaccaro il 15 maggio 2010.
L’Associazione Fioretta Mazzei e

l’Associazione Amici di don Carlo Zaccaro

vogliono ricordarlo con una Santa Messa che verrà celebrata a Firenze

lunedì 16 maggio alle ore 18.00

nella chiesa di S. Michelino Visdomini

Celebrerà il parroco, don Ernesto Lettieri.

Un invito a tutti gli amici a partecipare e a comunicare ad altri questo appuntamento.

……………………………………………

Il giorno 15 maggio verrà ricordato

– nella Messa di S.Procolo nella Badia Fiorentina
e
– a Galeata alle ore 18 nell’Abbazia di Sant’Ellero durante la celebrazione delle Cresime presieduta dal Vescovo di Forlì Bertinoro Mons Pizzi.

Un’occasione irripetibile per passare dalle parole ai fatti

da: https://www.osservatoreromano.va/it/news/i-rifugiati-e-leuropa

Giorgio La Pira ripeteva spesso che «i veri materialisti siamo noi che crediamo nella risurrezione di Cristo». Per il sindaco di Firenze, che aveva riscoperto la fede proprio nella notte di Pasqua del 1924 — quando, dopo la comunione, sentì «nelle vene circolare una innocenza così piena, da non poter trattenere il canto e la felicità smisurata» — questa provocazione, con cui si faceva beffe degli ideologi marxisti di ogni grado e latitudine, assumeva un duplice significato.

Da un lato, ribadiva con forza il cuore della fede cristiana — la risurrezione della carne — come evento incontrovertibile, al tempo stesso, storico e futuro. E, dall’altro lato, apriva immediatamente una riflessione sulla dimensione sociale del cristianesimo. Ovvero, su una fede che, coerentemente, inclina a prendersi cura di quello che Cristo stesso ha amato. «Cristo è anche uomo? Ma allora le cose dell’uomo sono cose di Cristo: i valori dell’uomo sono valori di Cristo: le pene e le gioie dell’uomo sono pene e gioie di Cristo».

Le «pene e le gioie» a cui faceva riferimento La Pira sono oggi simbolicamente racchiuse in questo giorno di Pasqua. Gioia immensa per il Risorto e dolore inesprimibile per uno dei fenomeni più drammatici e complessi della modernità: quello dei rifugiati, degli sfollati e dei richiedenti asilo. Drammatico per le durissime condizioni di vita di quei circa 60 milioni di uomini e donne in fuga dalla propria casa; complesso perché si scontra con un sentimento profondo dell’animo umano: la paura. La paura del diverso, dello straniero, del migrante. «La croce di Cristo — ha detto ieri Francesco durante la Via crucis — la vediamo nei volti dei bambini, delle donne e delle persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle guerre e dalle violenze e spesso non trovano che la morte e tanti Pilati con le mani lavate».

Oggi, in molte regioni del mondo, i campi profughi sono ormai diventate delle città invisibili. O meglio: delle città tragicamente visibili per chiunque vi entri in contatto, ma totalmente assenti dalle cartine geografiche. Eppure in molti casi, questi rifugi provvisori si sono ormai trasformati in luoghi di abitazione permanente. Si pensi, per esempio, ai campi dei rifugiati Saharawi nel deserto algerino che esistono addirittura dal 1976.

I campi dei rifugiati sembrano rappresentare, dunque, l’emblema doloroso di una Pasqua incompiuta. La strada del calvario sembra non essere ancora finita. Le condizioni in cui si trovano a vivere questi esuli assomigliano molto di più a un «inferno», come ha scritto proprio ieri questo giornale, che a un lembo di Paradiso. Le notizie che arrivano dai campi dei rifugiati in Grecia, da Lesbo o da Idomeni, sono spaventose. Una distesa di fango e disperazione ai margini dell’Europa. Una distesa di miseria e dolore in bilico tra l’indifferenza e molte parole al vento.

Tuttavia Papa Francesco, prima di lavare i piedi ai profughi del Cara di Castelnuovo di Porto, ha detto che «i gesti parlano più delle immagini e delle parole». Ecco, la Pasqua ci invita a «passare» dalle parole ai fatti. Ci esorta a prendere cura degli ultimi. Ci invita ad agire. Soprattutto per un’Europa che sembra sempre più in difficoltà, stretta tra una crisi economica infinita e una profonda crisi di valori. Paolo VI, in tempi non sospetti, ci invitava a riscoprirne l’anima. San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ci esortavano a riconoscerne le radici.

E allora quale miglior momento di questo per costruire concretamente un’Europa diversa, solidale e più umana? Quale migliore momento per dare un significato forte al volontariato internazionale? Quale migliore momento per le popolazioni europee — ma non solo per loro — di andare in soccorso verso chi è sofferente nei campi dei rifugiati e riscoprire, in questo modo, anche l’anima profonda e l’identità dell’Europa?

Moltissimi, oggi, evocano la ricerca di un’identità europea. Le identità, forse, si studiano sui libri ma, di sicuro, si costruiscono sul campo concreto della storia. Questa è un’occasione irripetibile.

di Gualtiero Bassetti

Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene

Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte
di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto,
però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri
e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,
ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.

Stiamo con Francesco, Papa della gente e della speranza

da  https://www.stamptoscana.it/articolo/leader/stiamo-con-francesco-papa-della-gente-e-della-speranza

Firenze  – La Chiesa fiorentina ha accolto Francesco come l’uomo che più ne rappresenta la forte tensione umana e spirituale. Non c’erano solo le migliaia di persone assiepate dietro le barriere metalliche a salutare il pontefice dei poveri. Dietro di loro, sopra di loro, c’erano tutti quegli uomini che nel secolo scorso hanno lottato e sofferto per affermare il bisogno di una umanità nuova, sempre senza compromessi, dalla parte dell’ultimo. Gli Uomini delle Beatitudini.
Guardate bene fra quei volti e vedrete don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, i preti operai, don Giulio Facibeni, don Carlo Zaccaro, mons. Enrico Bartoletti, don Bensì, don Enzo Mazzi, Giorgio La Pira e tanti altri laici e religiosi, che sarebbe troppo lungo enumerare. Sono loro che hanno lasciato un’eredità profonda a volte silente a volte riaffiorante in tante storie individuali e collettive, protagoniste di una ricerca che non si arrende mai. Perché la spinta verso l’assoluto e’, prima di tutto, aspirazione alla realizzazione sulla terra dei valori più alti dello spirito.

Quante voci dentro questa cattedrale dove è passato lo spirito della storia. Dove Paolo Vi venne nel natale del 1966 a rendere omaggio a una città che si stava risollevando dai guasti dell’alluvione. Dove qualche secolo prima le chiese di oriente e occidente trovarono i motivi per una conciliazione che ebbe un respiro fragile, dove sostarono grandi uomini di stato come quel Pietro Leopoldo  che ebbe il coraggio per primo di abolire la pena di morte.

Questa è la nostra Firenze, Francesco, e noi siamo qui tutti insieme a ringraziarti per quello che stai facendo, per la speranza che stai offrendo ai poveri e agli emarginati di tutto il mondo, per le tue parole che hanno solo un senso, quello che va diritto al cuore di tutti. Per la tua azione instancabile nel riportare la Chiesa alle sue ispirazioni iniziali, al grande vento che spira dalle pagine del Vangelo. Noi siamo con te.

Piero Meucci

martedì 10 novembre, 2015