Ricordando don Carlo. di Giordano Frosini

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Ricordando don Carlo – Galeata, 19 giugno 2010
– Intervento di Mons. Giordano Frosini –
    Parlare con don Zaccaro era una gioia dello spirito, parlare di don Zaccaro è ancora un immenso piacere, mutilato però dalla sua assenza fisica e dalla mancanza del suo sorriso affabile e accogliente, della sua parola sempre pronta e comprensiva, della sua presenza amica e avvolgente. Siamo per questo costretti a ricorrere alla memoria, del resto ancora fresca, del suo volto e dei suoi lineamenti inconfondibili, del suo atteggiamento sempre umile e dimesso, del suo piglio apparentemente distratto e invece sempre attento e disponibile. Carlo rimarrà per tutti noi la figura rappresentativa ed emblematica del vero amico. Quello che non ti chiede mai nulla, perché non ha bisogno di nulla, e che è invece sempre pronto a dare, a donare, perché ha molto da dare, a tutti, senza riserve, a stendere la mano in atto di benevolenza, di simpatia, di affetto sincero. Così lo vogliamo ricordare insieme in questo momento, con la speranza che, ormai giunto al compimento finale della sua esistenza, sia capace di ascoltarci benevolmente e di perdonarci per le parole di elogio che siamo costretti a dire di lui. Da vivo non ce l’avrebbe certamente consentito. Eppure non possiamo tacere. Ora che l’abbiamo perso, ci rendiamo perfettamente conto della grazia che è passata vicino a noi e della grandezza di una vita apparentemente tumultuosa e disordinata, alla resa dei conti però dì una linearità e di un’unità disarmanti. La vita della carità. Carlo è stato un esemplare, un eroe, un santo della carità cristiana. Nessuna paura a usare questi termini: i santi, tutti i santi della chiesa (come non ricordare in questi luoghi don Giulio Facibeni, suo maestro e sua guida) sono fatti di questa materia. Più volte mi è capitato di dire in questi giorni che nella sua vita esemplare e luminosa ci sarebbero certamente gli estremi per una sua vera e propria esaltazione canonica. Questo probabilmente non avverrà, ma il suo esempio rimane dinanzi a noi suggestivo e perentorio, un richiamo forte alla nostra mediocrità, una sollecitazione dolce e seducente a riprendere il filo di un discorso che si è soltanto interrotto, ma che deve proseguire nel suo nome e nel suo ricordo.
Il santo della carità. Nel lungo, diuturno, complesso rapporto che ho avuto con lui, ho potuto riscontrare in lui gli elementi più limpidi del messaggio evangelico. Frequentarloera quasi un ripasso degli insegnamenti e degli esempi che costituiscono il motivo fondamentale della presenza del Figlio di Dio in mezzo a noi. Quasi un commento vivente delle più belle e più invidiate pagine del Vangelo. Forse la migliore commemorazione è quella di riprendere in mano questi testi e rileggerli alla luce della sua vita, che niente e nessuno, nessuna difficoltà e nessun insuccesso hanno mai potuto interrompere o anche soltanto sospendere e stornare.
Carlo è stato il buon samaritano che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, un giorno si incontrò con l’uomo denudato e ferito, abbandonato da tutti, nell’indifferenza generale, anche dei cristiani e degli uomini della sua stessa fede, ai margini della strada. Senza recriminare su coloro che lo avevano così maltrattato e su coloro che non lo avevano assistito, si fermò, prese cura di lui, lo portò al sicuro, pensò alle spese necessarie e se ne andò in cerca di altri feriti e di altri abbandonati dall’egoismo imperante.
Un esempio nel tempo dell’individualismo e del riflusso nel privato, una voce controcorrente che non possiamo lasciar perdere, mentre ricordiamo insieme, nella commozione e nell’affetto, l’amico comune. Il miglior modo di ricordare coloro che ci hanno lasciato, il suffragio più cristiano che noi possiamo fare nel loro ricordo è quello di far nostra la loro lezione e di continuare, per portarlo a compimento, quanto è stato forzatamente sospeso per la loro morte. Quante cose aveva ancora in mente don Carlo! La sua fantasia correva veloce, senza tregua, con audacia, precorrendo la volontà che non sempre poteva seguirlo e questa, a sua volta, urtando contro la ragione che, nonostante tutto, deve fare i conti con la dura realtà. I sogni_ di don Carlo qualche volta arrivavano alla loro realizzazione, ma molti si perdevano lungo la strada. Quelli però che hanno visto la luce sono sufficienti a fare di lui una stella di prima grandezza nel cielo rarefatto del nostro tempo. Infaticabile e indomito fino alla sua consunzione, nonostante la sua veneranda età, correva da un punto all’altro senza fermarsi mai. Fissava e non manteneva, perché nel frattempo gli erano arrivate all’orecchio nuove urgenze, nuove richieste della sua presenza. Lo cercavi in Italia e invece era in Albania, lo richiedevi a Firenze e invece era da un’altra parte. Caritas Christi urget nos. L’uomo della carità non può permettersi stasi o riposi, fino al riposo eterno nella casa del Padre, nel seno della santissima Trinità.
Don Carlo era una vittima, un’ostia che doveva consumarsi sull’altare della vita, insieme all’ostia che ogni giorno consacrava nella suprema missione del suo ministero sacerdotale.
Un tratto, questo, che segna la superiorità di Carlo sulla figura del buon samaritano a cui stiamo facendo riferimento, così ben delineata dal vangelo di quell’artista cristiano che risponde al nome di Luca. Perché il samaritano incontrò il malcapitato lungo la strada che stava percorrendo nell’esercizio del suo mestiere, ma Carlo non si fermò a coloro che incontrava lungo le sue strade, che pure erano tante, ma addirittura si mise in cerca di coloro che avevano bisogno di aiuto, si fece un rabdomante della povertà, un pellegrino d’amore; quando fu necessario, messi i suoi assistiti al sicuro, varcò perfino il mare e posò la sua attenzione sulla poverissima Albania, dissanguata in tutti i sensi da uno dei regimi più feroci del nostro tempo, e ricominciò da capo. Io rimango uno dei testimoni più vicini dell’ansia che animava don Carlo e che non gli permetteva tregue o riposi. Il piccolo riposo che si permetteva ogni giorno era una ricarica di idee, di entusiasmo, di vera e propria passione. La mattina ne aveva sempre una nuova. Un pozzo senza fondo, una miniera inesauribile. La carità di Cristo è senza misura.
I commentatori della nostra parabola, accanto al tratto di solidarietà, mettono in luce anche l’efficienza del samaritano. Perché una legge della carità è l’efficienza, la capacità di andare alle cause profonde del male, per poterle eliminare e creare le condizioni di una vita diversa. Un tratto che lo rassomiglia molto bene a don Carlo, perché il suo aiuto non era soltanto un aiuto di circostanza, ma un intervento teso a risolvere il problema. La carità intesa nel suo senso più efficace e, se vogliamo, anche più moderno: la carità è di natura sua risolutiva, un intervento che rimette in cammino l’assistito, con uno spirito nuovo e in condizioni diverse.
Però, attenzione. Nel racconto di Luca c’è un verbo su cui dobbiamo porre la nostra attenzione, perché altrimenti questo miracolo resterebbe senza una spiegazione. Alla resa dei conti, il samaritano non si ferma perché spinto dai suoi buoni pensieri e dai suoi altruistici sentimenti. L’uomo non è capace di superare da solo le barriere del proprio egoismo, della propria pigrizia, della propria inguaribile mediocrità.
Questo verbo è il cosiddetto verbo di Dio, quello che esprime nel linguaggio neotestamentario l’amore viscerale e materno di Dio. E’ il verbo che dà ragione dell’atto compiuto del buon samaritano: la traduzione lo rende con “ne ebbe compassione”, ma il senso non è reso in tutta la sua forza. Questa compassione è la compassione di Dio, che Dio in quel momento trasmette al samaritano di passaggio. Ci trasferiamo con questi pensieri alla situazione di don Carlo. Anche lui è stato colpito da questo dardo di fuoco e non ha opposto resistenza, anzi ha accettato questa missione, questo carisma dello Spirito, come il dono più bello della sua vita e l’ha onorato fino alla sua morte.
Tutto questo ci rimanda alla sua vita spirituale nel senso stretto della parola, alla sua preghiera, alla sua disponibilità, alla sua capacità di ascolto della chiamata e della parola di Dio. E’ questa, e non altra, la tipica croce del cristiano: la croce della sequela, la croce della vittoria sul proprio egoismo, la croce del dono totale di sé. La croce della cosiddetta mortificazione interiore. Su questa croce don Carlo si è disteso integralmente, senza residui e senza ritorni, in questo degno figlio di don Facibeni.
La chiesa attuale non può, non deve dimenticare che su di essa grava la scelta preferenziale dei poveri. Una scelta necessaria, non qualcosa di cui si può fare a meno: una scelta che fotografa al fondo l’identità del cristiano e dell’identità cristiana. Perché Dio è così, perché Gesù ha fatto così, perché così ci ha trasmesso la più veneranda tradizione della chiesa. Nel Regni í poveri sono, devono essere, i privilegiati. Quando la chiesa ha fatto spazio ai ricchi e ai potenti, dimenticando i poveri, ha traditala sua missione. Una tentazione ognora ricorrente. Portare fino in fondo questa scelta è tipico dei profeti e dei testimoni. La memoria vivente per una chiesa distratta e sempre tentata dalla tentazione del secolo. Noi proclamiamo oggi Carlo come il nostro profeta e il nostro testimone, degno continuatore dì quella schiera di cristiani meravigliosi che egli incontrò nella sua vita e con cui ebbe rapporti fraterni di amicizia e di condivisione. Fra tutti, ricordiamo Giorgio La Pira.
Altri dopo di me diranno cose nuove nei riguardi di don Carlo. Pensavo che spettasse proprio a me esaltare e sottolineare questo lato della sua personalità. Ma almeno un altro accenno mi si permetta: uomo della carità, Carlo era anche un uomo di pensiero e di cultura. Non si spiegherebbe altrimenti come egli abbia potuto intrecciare rapporti di amicizia con molti rappresentanti della cultura cattolica italiana del nostro tempo. Don Carlo conosceva tutti e da tutti era stimato e amato. Umile fino all’inverosimile, egli riusciva a nascondere questo tratto della sua personalità. Ma il passato della sua vita (l’attività nella Fucì, nell’associazione dei Laureati cattolici, nello studio e nell’insegnamento del Diritto), i suoi ricordi, le citazioni sempre pronte sulle sua labbra, i suoi rarissimi scritti rendono chiara testimonianza a questa sua innegabile dote. Prendete in mano un suo scritto e troverete chiarezza di idee, profondità di pensiero, dominio del tema trattato, linguaggio forbito, punteggiatura esemplare. Doti che raccomandano le qualità di uno scrittore e, perlomeno, di una persona intelligente.
Parlando di don Milani, Carlo intitolò il suo scritto: “Un fulmine piombato sulla chiesa“. In questo scritto, se non vado errato, c’è molta autobiografia di don Carlo: la scusa per chi non lo aveva capito in tempo, il suo tratto ecumenico ma non accomodante, il suo amore efficace per gli ultimi e gli emarginati, il ricorso alla cultura come mezzo di liberazione e di rinascita dei derelitti della società. Un fulmine: l’immagine si addice anche a don Carlo. Oppure, se preferiamo, diciamo che “dopo il fulmine è venuto il tuono”. Un tuono che è riecheggiato, fino a romperci i timpani, nella Firenze che, come è stato detto, ha perso con lui forse l’ultimo personaggio che l’ha fatta grande nella chiesa e nel mondo e l’ha imposta all’ammirazione comune. Ma anche con risonanze lontane, in tutta l’Italia rattrappita nella morsa di una cultura individualistica e consumistica, nella chiesa che sta perdendo continuamente entusiasmo e capacità penetrative e di consenso, in noi stessi tentati di seguire l’andazzo dimenticando i nostri eroi silenziosi che la provvidenza ci ha fatto incontrare nella nostra vita.
Grazie, don Carlo. Non ti dimenticheremo, non vogliamo dimenticarti. Ma, perché questo sia possibile, aiutaci a camminare sulla strada che ci hai indicato, con lo stesso ardore e lo stesso entusiasmo che hanno animato e bruciato la tua lunga esistenza. Lunga, ma per noi sempre breve. Tu ci sei mancato in un momento particolarmente difficile della nostra storia. Di te avevamo ancora bisogno.
Continuare la tua opera sarà per noi l’unico modo di onorare la tua memoria. E’ questo quasi un giuramento che, fatti forti dal tuo esempio, prendiamo dinanzi alle tue spoglie mortali. Così, in noi, tu potrai ancora continuare la tua missione e portare a termine qualcuno dei numerosi sogni che ti sei portato nella tomba.
                                                                   Giordano Frosini